La prima chiamata

La prima chiamata arrivò verso le 9 del 1 gennaio 1910, un intirizzito mattino di capodanno, con la città ancora mezzaddormentata. A Pavia, che contava allora quarantamila abitanti, c’erano circa 300 telefoni, quasi tutti in dotazione a uffici pubblici, istituti, fabbriche, negozi: al numero 140 rispondevano i Pompieri,come si chiamavano allora i Vigili del Fuoco, acquartierati nella caserma di Vicolo San Dalmazio, dietro la Palestra civica. Allarme: ma non si trattava d’un camino che avesse preso fuoco, o di una cosa del genere. Si chiedeva invece soccorso per un tale, che in Corso Garibaldi, era caduto e non riusciva a rialzarsi. Un po’ d’ansia, probabilmente, e di trambusto: e poi quattro o cinque volenterosi si precipitarono fuori dalla caserma, spingendo una lettiga a due ruote, sulla quale era sistemato un involucro di tela grigia. Naturale che i passanti si chiedessero chi fossero quegli uomini, dall’aspetto vagamente militare, con mantelline sulle spalle e kepì calcato sulla fronte; e a che servisse quella sorte di “cannoncino” di tela; chissà, forse qualcuno li seguì. E vide che un uomo, portato fuori a braccia da una casa, veniva sistemato sulla lettiga, sospinta poi in fretta, e in salita, per via Siro Comi. Protetto dall’aria, e dagli sguardi curiosi, dal “cannoncino”, (il nome era destinato a rimanere, e anzi ad indicare la lettiga stessa) l’infortunato fu portato all’Ospedale San Matteo (che era, ricordiamolo, in Piazza Leonardo da Vinci), dove il medico di guardia, dottor Ettore Dagna, lo ricoverò per frattura del femore. Un caso non particolarmente grave, un banale infortunio, una cosa insomma da tutti i giorni, o quasi. Perché parlarne, allora?, perché registrarlo? Perché attraverso quell’osso rotto, quei quattro o cinque volontari, quel “cannoncino” (e aggiungiamocelo pure quel gruppetto di curiosi), la Croce Verde entrava nella Storia della città di Pavia.

Un posto nella storia

Non ho scritto questa ultima frase così, tanto per, come si usa fare nelle pubblicazioni celebrative. Non voglio enfatizzare proprio nulla. Ho usato la parola “Storia”, semplicemente perché è necessario usarla. La Storia d’una città, lo sappiamo è fatta di pagine bianche, grigie e nere; essa deve registrare parimenti disgrazie e fortune, progresso, stagnazione e regresso, rovine abbandoni e rinascite: le catastrofi e le buone venture. Poche venture, per Pavia, sono state buone come quella della Croce Verde. Ventura. Che vuol dire poi, in latino “cosa che verrà”, e che quindi ci è ignota.

Proviamo a pensare a che cosa avverrà, oggi, nel malaugurato caso d’un incidente. Sorpresa, sgomento, angoscia, disperazione, e tutto quanto un incidente comporta: ma un appello, infine. Una chiamata, una telefonata al 0382/527777: e poco dopo, l’urlo della sirena amica che si avvicina. Coraggio, è la Croce Verde, arriva, sta arrivando, è già qui. Ecco la “ventura” pavese.

Ed ecco il perché del posto che alla Croce Verde spetta, a pieno diritto, nella Storia della città.

Nasce la Croce Verde Pavese

Società che si proponessero soccorso a malati e ad infortunati, ve ne erano già, o stavano sorgendo, in quegli anni; i pavesi che fondarono la nostra, la chiamarono Croce Verde , con richiamo alla Croce Rossa: questa s’occupava dei feriti in tempo di guerra o di calamità: bene, un’altra Croce si sarebbe occupata dei bisogni d’aiuto in città; e si scelse di chiamarla “verde”, perché mi piace pensare, questo è il colore della speranza. E quei cittadini chefondarono la “Società di pubblica assistenza Croce Verde”, costituendosi comitato promotore, vollero testimoniare della loro speranza: non solo in quella di riuscire a soccorrere e a salvare, ma anche in un’altra, quella cioè della solidarietà; e poiché la solidarietà non ha prezzo, si scelse il volontariato; per avviare il servizio, occorreva naturalmente denaro; nel novembre del 1909 il comitato cominciò la distribuzione di schede d’adesione e di sottoscrizione e si fece appello alla città. I pavesi furono pronti a rispondere: come sempre risposero, rispondono e risponderanno a progetti onesti e a parole chiare. Perché potremo (e potranno) dire tutto, della nostra città e dei suoi abitanti – e mi riferisco non a chi considera Pavia un posto come un’altro; non a chi vi risiede per caso: ma a chi, invece la vive, la sente sua e insieme si sente suo. Potremo e potranno criticare la freddezza, l’indifferenza, la riservatezza dei pavesi: ma non la loro civiltà. Non il loro senso di pietà (e se qualcuno dovesse insistere a sostenere il contrario, a rispondergli basterà invitarlo a passare un’ora appena nella sede della Croce Verde.) I pavesi risposero dunque con quella determinazione di poche parole che, da noi, tiene luogo dell’entusiasmo; si fecero sotto i primi volontari, si costruì il “cannoncino”, in mancanza d’una sede si chiese ospitalità ai Pompieri: si cominciò ad operare, insomma, ancor prima che l’assemblea degli aderenti approvasse lo statuto e nominasse il Consiglio Direttivo. 

La Società nacque ufficialmente nel maggio 1910: ma, lo abbiamo già visto, già il primo giorno di quell’anno i militi avevano soccorso quel tale, che s’era fratturato il femore in Corso Garibaldi. Pavesi come siamo, sappiamo che, da noi è facile cominciare, ma difficile continuare; e che molte cose si perdono per la strada. Sarà il testamento di San Siro, sarà il nostro carattere, sarà insomma quello che si vuole, ma molti voli, cominciati bene, s’interrompevano a metà; e le ali che parevano e pretendevano d’essere instancabili, hanno perso forza, fino a ripiegarsi e a non battere più. Per la Croce Verde però è stato diverso. Anziché stancarsi, i volontari presero coraggio; anziché diminuire, aumentarono. Le difficoltà vennero superate di slancio: mica per nulla i volontari si erano dati il nome di “Militi”: un milite, un soldato, non è più tale se si spaventa, se ha paura, se cede alla stanchezza ed alza la bandiera bianca. In effetti la Società ebbe in quei suoi primi anni, un carattere militaresco. Le veniva non soltanto dalla rigorosa divisa dei suoi uomini e dal loro portamento fiero, ma anche dalle esercitazioni che venivano periodicamente condotte in campagna e nello montagne del nostro Appennino. Era, in un certo senso e nei suoi limiti, l’anticipazione di quelle che sono, oggi, le esercitazioni della Protezione Civile.

La Croce Verde Pavese marciava più veloce del suo tempo, e malgrado le difficoltà del tempo (la guerra in Libia, e l’approssimarsi fatale del primo, devastante conflitto mondiale): come ha sempre fatto, del resto, e fa oggi ancora. Essa si diede nuovi strumenti: si realizzò, per gli interventi di minore gravità la “ciclo-lettiga”. Doveva essere terribilmente difficile e faticoso farla muovere, come lo era condurre quelle primitive biciclette da bersagliere, con le gomme piene, senza camera d’aria; ma s’arrivava prima sul posto, e questo compensava ogni fatica. Il “cannoncino” era stato intanto sistemato su una carrozza trainata da un cavallo; tirava ormai aria di guerra e la divisa grigioverde, con le “mollettiere” come, alla francese, si chiamavano quelle fasce che serravano i polpacci, conferivano ai volontari un aspetto ancor più militare di prima. Nella prima, come, poi nella seconda guerra mondiale, la Croce Verde si prese cura non soltanto del soccorso ai cittadini, ma anche ai feriti ricoverati nei vari ospedali pavesi. 

Le prime autolettighe

Ma torniamo nel 1913, anno memorabile, perché vide arrivare, prezioso dono del cavalier Enrico De Silvestri (che gestiva, allora, il celebre “Biffi” di Milano) la prima autolettiga. La croce verde (voglio dire, semplicemente, l’insegna) cominciava a mostrarsi, correndo veloce al soccorso, per le nostre strade – quiete e silenti, allora: le strade della rarefatta Pavia che Guglielmo Chiolini ci avrebbe poi mostrato nelle sue fotografie, e che Cesare Angelini ci avrebbe narrato nelle sue pagine. E già che siamo in argomento, ecco quanto, della Croce Verde, egli scrisse nel 1960, cinquantenario della Società:Per quanto, adeguandosi ai tempi, assumano naturalmente forme nuove, le Opere di misericordia e, in genere, le opere di bene, si possono sempre ricondurre al loro fonte genuino, che è il Vangelo. Nessuno dunque si meraviglierà se la nascita sentimentale e spirituale della Croce Verde, la ritroviamo nella Parabola del Samaritano, che riassume la sostanza esterna e universalmente umana del Vangelo. Sentite San Luca: “Un samaritano che faceva suo viaggio, visto il ferito sulla strada, s’impietosì, gli accostò, ne fascio le ferite, e collocatolo sul suo giumento, lo condusse alla vicina locanda e ne ebbe cura.” Sarà l’opera della Croce Verde: correre a raccogliere chi soffre e a portarlo all’Ospedale perché sia assistito e curato. Cinquant’anni fa, quando nacque, la Croce Verde correva con una lettiga a mano; ora corre con una mille e quattro per essere più veloce. I Croceverdini sono dei volontari, senza retribuzione, spesso senza soddisfazione, fuor quella di fare del bene. E’ meraviglioso quel che si legge nel Decalogo della istituzione: “il socio consideri il malato come un suo superiore”. E’ l’eco, forse inconsapevole, delle parole del Vangelo, dove dice di Cristo che si è identificato nel povero e nell’infermo “

Decenni di attività

La Storia della Croce Verde è intrecciata dunque con quella della città, ed anche con quella della Provincia, che furono sottoposte alle prove dei disastri naturali, come le alluvioni e poi a quelle della guerra, bombardamenti e mitragliamenti; e a quelli delle catastrofi caratteristiche della nostra età – e ricordiamo il terribile 31 maggio 1962, quando nella stazione ferroviaria di Voghera, si schiantò il treno numero 1361 e le vittime si contarono a dozzine. Gli uomini della Croce Verde giunsero in quello scenario da incubo mentre ancora i feriti gemevano, e molti ne salvarono. E’ una storia che continua, che giunge fino a ieri, al fatale 17 marzo 1989, al crollo della torre civica: ero in piazza Grande, alle 9 di quel mattino, ed esterrefatto, tra gli affannati urli delle sirene della polizia e dei vigili del fuoco, udii quelle delle autoambulanze della Croce Verde. Pavia chiama, esse arrivano. Ma se questi eventi – alluvioni, crolli, disastri di pace e di guerra – sono memorabili nella loro tragica straordinarietà, e sono registrati nella memoria collettiva, e talvolta anche dalla storia, la Croce Verde fronteggia eventi senza numero e senza risonanza, registrati soltanto nel suoi verbali (ma anche nel cuore di chi li vive!); e ogni giorno compie interventi.

Non alludo a quelli svolti per così dire, davanti a tutti: a sirene spiegate, cioè, e con l’autolettiga che sfreccia nel traffico per giungere sul luogo d’un sinistro, e soccorrere un infortunato, un ferito, una persona in imminente pericolo di vita; mi riferisco piuttosto a quelli resi, con puntualità silenziosa e comprensione fraterna a quanti sono costretti a quotidiane cure in ospedale: penso, ad esempio, al trasporto sul posto di cura del dializzato o del paralitico. Non c’è bisogno si sentire l’urlo della sirena: quando si vede un’ambulanza della Croce Verde, si può essere sicuri che non gira a vuoto; sta compiendo un servizio nei confronti di chi soffre.

A sfogliare i giornali, a seguire su di essi la vita della Croce Verde, è un susseguirsi di cifre: migliaia di chilometri raggiunti oggi, superati domani; si legge che le ambulanze potrebbero aver fatto il giro del mondo una, due, cento volte. Il numero degli interventi cresce di anno in anno, di mese in mese, di settimana in settimana. Ma le statistiche sono fatte di numeri, e i numeri si sa, spesso confondono e presto si dimenticano; e in ogni caso non possono rendere una idea di che cosa sia, nella sua realtà un “servizio”.

Io ho voluto provare, una volta, a vivere per un po’ l’esperienza dei volontari. Ricordo molto bene quella sera; era una quieta sera pavese, rondini e cielo rosato. Nella palazzina di via Boezio, i militi e gli autisti erano in parte nel bar, a giocare a carte o al biliardo, in parte seduti nel cortile a prendere il fresco. Le ambulanze erano là, pronte sotto la tettoia. Quel giorno, le uscite erano state ottantacinque; e si sapeva che quella tranquillità poteva finire da un momento all’altro. Guardavo i militi; ed erano, i loro, quei franchi volti pavesi visti da sempre per le strade della città: operai, artigiani, impiegati: come diciamo noi altri “facc ad tuti i dì”: di gente che s’era fatta tutta una giornata di lavoro, e che poi era venuta qui in via Boezio, pronta a buttar via carte e a deporre le stecche, per infilarsi un camice, saltare sull’ambulanza e bagnarsi magari le mani di sangue. Alcuni militi, una dozzina, erano in lista per il turno di notte. Stavo chiacchierando, quando squillò il telefono. E subito, rapidamente ma senza fretta, fu dato l’annuncio: “Chiamata. Incidente. Un ferito all’altezza del numero 140 di Viale Cremona.” Questione di pochi minuti: già un’ambulanza partiva, e m’avevano chiesto se volevo andare: non sapevano quale emozione provai, quale senso d’orgoglio mi riempì. Mi sentì, mentre si volava verso il luogo del sinistro, milite della Croce Verde. Provai intensa la sensazione d’essere finalmente utile a qualcosa.

Bisogna forse esserci dentro, per capire bene che cosa spinga questa gente che vive di lavoro, ad andare ogni sera alla Croce Verde, e a mettersi a disposizione per servizi che non richiedono solo spirito di solidarietà , ma anche saldezza di nervi, controllo, comprensione, pietà; e bontà, anche. Non poca bontà: è una faccenda dura raccogliere un ragazzo morente sull’asfalto, o trasportare giù dal sesto piano una donna svenuta di 95 chili; non è un bel lavoro ripulire un volto imbrattato di sangue, svuotare la bocca d’un ferito che sta soffocando. E’ estenuante oltreché angosciante cercare di rianimare qualcuno in attesa di cure adeguate; questa gente lo fa: raccoglie feriti, trasporta infermi, soccorre gli infortunati: conforta con la sua sola presenza. E quando non c’è più nulla da fare, aiuta a morire.

Perché a questo modo, a questo costo militi e autisti diventano protagonisti della vita quotidiana della città – della quale sono i veri uomini indispensabili. Pavia lo sa. E l’offerta che si fa alla Croce Verde (che può andare dall’ “obolo della vedova” all’ambulanza) è per noialtri pavesi la più bella, la più gratificante, anzi la più naturale di tutte. Non possiamo dire, vero?, che la nostra città sia all’avanguardia di qualcosa, e forse ci interessa poco. Ma che la Croce Verde abbia nuove ambulanze, nuova sede, nuove forze, eh, questo ci interessa e come, anche se speriamo di non averne mai bisogno. D’essere soccorso dalla Croce Verde non lo auguro a nessuno – fuorché a chi ne ha bisogno. Non potrei augurargli di meglio, in tal caso. E ancora per me, nulla come la Croce Verde dà il senso di Pavia; se fossi, per esempio, a Copenhagen, e vedessi là una autolettiga e con la Croce Verde (si fanno simili servizi all’estero) mi sentirei di colpo pavese come se fossi davanti al ponte coperto, e anzi probabilmente anche di più.

L’ultima chiamata

Ho cominciato queste righe parlando della prima chiamata…e l’ultima chiamata? L’ultima non c’è. C’è sempre la penultima; ed è probabilmente in corso.
E poi ce ne sarà un’altra, e un’altra ancora; e forse tra un po’ sentiremo l’aria tagliata dal grido della sirena.
Mi sono chiesto qualche volta: se questo suono potesse trasformarsi in parola, che parola sarebbe? Mi sono risposto: forse”Largo, largo!” oppure: “Ambulanza!”, o Ma no. Più semplicemente, quel suono diventerebbe la parola:”Croce Verde!”, e a nulla può dare, a chi è in pericolo, o a chi lo assiste, un più profondo palpito di speranza. Li senti?, stanno arrivando, sono quelli della Croce Verde, coraggio, ce la facciamo!…
E questo, lasciatelo dire a uno che, non fosse stato per la Croce Verde, non sarebbe qui a raccontarlo.